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Welfare, troppo vicino o troppo lontani: i rischi del lavoro sociale. intervento dell'On. Vanna Iori

22 aprile 2016

Pubblicato in: Attualità

Quando si ha a che fare con il lavoro di assistenza e di cura, cuore del welfare, bisogna fare i conti con diversi elementi. Tra questi c’è sicuramente quello della distanza che interroga la relazione con sé
stessi e con gli altri, richiamando l’esigenza di riconoscere i propri e i vissuti degli altri. In ogni diversa relazione occorre trovare e mantenere quella “giusta distanza” o “giusta vicinanza”, continuamente da definire, tra la fuga nell’impersonalità e l’eccesso di coinvolgimento.

Innanzitutto è necessario avere consapevolezza che stare presso l’altro nelle relazioni d’aiuto implica, come condizione necessaria, imparare a stare presso di sé. I sentimenti e le emozioni non sono incomunicabili. Le frequenti tentazioni di fuga verso il distacco emotivo sembrano garantire un riparo da quella sofferenza che il rispecchiamento inevitabile nell’esistenza dell’altro comporta. Ma la
fuga non pone al riparo dai sentimenti di colpa e d’inquietudine, così come l’eccesso di coinvolgimento non mette al riparo dai sentimenti di onnipotenza/impotenza, spesso così intensi da non consentire di
“staccare la spina”. Mantenere una equilibrata distanza tra la propria vita emotiva e quella degli altri è la condizione per una corretta relazione con sé stessi e con le persone che quotidianamente incontriamo nelle professioni di aiuto.

Un primo requisito per trovare una giusta vicinanza nasce dalla capacità di distinguere ciò che proviamo noi da ciò che provano gli altri. Apparentemente è una distinzione ovvia: i nostri sentimenti non sono quelli degli altri. Ma in pratica è molto frequente la confusione tra i nostri vissuti e quelli che noi attribuiamo agli altri.

Soltanto una consapevolezza della differenza rende possibile distinguere quali sentimenti siano attribuiti agli altri, in una sorta di immedesimazione spontanea e inconsapevole, e quali siano “originariamente” degli operatori.

Nell’incontro con le persone in difficoltà, la capacità di ascolto dell’altro non è meno importante della capacità di ascolto di sé. Anzi, quest’ultima è necessaria per comprendere correttamente l’altro, senza però attribuire a lui ciò che sentiamo. Emerge inoltre quanto di pre-giudizio e pre-concetto pesa sempre sui nostri vissuti nell’incontro con le diverse forme di fragilità sociale, economica, culturale, fisica. Quando il coinvolgimento assume carattere di fusionalità e immedesimazione, diventa un ostacolo a comprendere i bisogni dell’altro, lasciando prevalere un rispecchiamento improduttivo.

La necessità di una distinzione emotiva tra ciò che sente l’operatore e ciò che sente e manifesta la persona in difficoltà porta alla consapevolezza condivisa di quanto sia difficile un equilibrio tra l’eccesso di immedesimazione (dove il tu e l’io appaiono indistinti) e la fuga nella presa di distanza, fino a trasformarla in distacco. La sensazione di fallimento professionale si acuisce quanto più ci si sente invischiati e accresce il bisogno di prendere le distanze.

La distanza è spesso percepita come una questione personale, che si gestisce giorno per giorno, a seconda delle situazioni e degli stati d’animo. Nella consapevolezza che ha più bisogno di marcare la distanza chi più teme di avvicinarsi a se stesso, prende forma un’acquisizione di sapere e arricchimento professionale: la vita emotiva degli altri si apprende attraverso la propria. La prima
tecnica davvero necessaria si trova in sé stessi, guardandosi dentro. La comprensione di sé genera competenza esistenziale ed emotiva per l’autentica comprensione dell’altro.

Tramite l’analogia con le nostre esperienze vissute possiamo comprendere la risonanza del sentimento dell’altro in noi. L’empatia non è “unipatia” in quanto esige di farsi carico del proprio sentire e di aver cura del vissuto altrui “come se” fosse il nostro, ma avendo ben chiaro che non lo è: ciò che egli vive resta “originariamente suo”. Mentre le riflessioni si fanno via via più ponderate, dall’esperienza professionale di continuo contatto con emozioni intense di “rispecchiamento”, si delinea la non sempre facile distinzione sé-altro. Nelle strategie per incontrare e aiutare l’altro, senza “assimilarlo” a sé tramite un’identificazione adesiva, ma rispettandolo nella sua differenza, è garantito il rispetto del suo progetto di vita.



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